Cosenza

Ideologia e passione critica

di Achille Greco

Luigi Pellegrini Editore pubblica a cura di Carlo Fanelli, gli Atti del Convegno Pasolini e la Calabria. Le giornate di studio si sono tenute ad Acri il 24 e 25 marzo 2023 con la collaborazione, tra gli altri, dell’Amministrazione Comunale di Acri, dell’Istituto Calabrese per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea e della Fondazione Padula.

Scombino la sequenza degli interventi in indice ed inizio la mia cronaca di lettura dalle prime esperienze poetiche di Pasolini.

Il luogo è Casarsa, ritiro dell’anima, oasi di ristoro dalle peregrinazioni imposte dalla carriera di ufficiale di fanteria del padre (Gianfranco Bartalotta, Pier Paolo Pasolini. L’infanzia, le prime poesie, i ragazzi di vita). Per il suo laboratorio di poesia Pasolini sceglie il dialetto, a vent’anni pubblica “Poesie a Casarsa”, prisma di suggestioni per quel territorio e per l’età della fanciullezza impastata di dolcezza e di tragico. La scelta del dialetto non evocava la purezza di un mondo percepito come immacolato ma segnava una immediata valenza politica, antifascista avversa ad una società che esiliava i dialetti quali espressioni barbariche.

Il dato biografico ritorna prepotente nei primi anni Cinquanta quando Pasolini trasferitosi a Roma vive, per ristrette economiche, nelle borgate. Fa comodo pensare che in quegli anni si imbeve del dialetto borgataro che trasuda nei romanzi come esperimento letterario, documento in parte presa diretta della vita nelle borgate e in parte inventato per imitazione. In realtà, per dichiarazione dell’autore, incatenare l’attenzione sui dati immediati, il dialetto, fa parte della poetica narrativa ma la condizione prosaica e immorale dei ragazzi di vita è dovuta al fascismo che li ha fatti crescere come analfabeti e delinquenti selvaggi. Contini fu tra i primi a segnalare che i romanzi furono scritti con lo stesso sguardo riservato da Pasolini a Casarsa, solo che lì si scopre il proletariato, ritorna il sogno della poesia d’adolescenza ma ritorna come incubo perfetto.

Le classi subalterne entrano nell’opera di Pasolini ancor prima delle borgate romane, nell’immediato dopoguerra i suoi componimenti aprono alla storia trascurando esperienze private, sia sul piano narrativo e tematico che su quello linguistico espressivo (Paolo Desogus, “Chiarezza e passione” Pasolini e l’irruzione delle classi subalterne nella storia); lo fa utilizzando in poesia la parlata di un paese vicino a Casarsa, per uscire dall’orizzonte degli affetti e praticare una lingua che non risuona di emozioni intime. Utilizzare il dialetto a metà degli anni Quaranta significa accedere a esperienze e affetti dei parlanti, la pratica poetica che riguarda i parlanti sia in poesia che nei romanzi genera dalla scoperta della questione contadina e si sviluppa con la militanza comunista. Nella lettera in sua difesa a seguito dell’espulsione dal PCI Pasolini augura ai compagni di lavorare con chiarezza e passione. Nello scritto introduttivo al “Canzoniere italiano” il campo semantico di «chiarezza» è opposto a quello di «passione». Differenza non immediatamente e semplicemente correlabile con l’allontanamento dal Partito perché anche al tempo di «passione e ideologia», sintesi di unicità tra pratica poetica e visione politica, sussistono attriti e divergenze che generano le contraddizioni che si paleseranno dagli anni Cinquanta. Negli 1946-47 la scoperta delle classi subalterne e dei contadini si coniuga con la maturazione intellettuale derivata da letture e militanza: i testi dei “Quaderni rossi” concepiti come «autonarrazioni» valorizzano la condizione sociale dei più umili. Lo sguardo sui “vinti” vede una classe immobile in connessione sentimentale con l’autore intellettuale. La condizione proletaria, impastata di necessità materiali, di lavoro, fatica nei campi con una fisicità contigua alla natura diviene eros, nella dimensione estetica e sensuale. In quegli anni frequenta i corsi di Filosofia all’Università di Bologna e le lezioni di Felice Battaglia, nato a Palmi, problematizzano e mediano alcuni aspetti teorici avvertiti da Pasolini. Poiché la ragione non può intendere pienamente il mondo, nell’uomo rimane qualcosa di irresoluto che Battaglia definisce «irrazionale», irriducibile alla razionalità e alla dialettica della storia. Propone, quindi, una “sintesi aperta”, spazio nel quale coltivare il rapporto con ciò che resiste alla ragione. In Pasolini il luogo della ragione è in conflitto con lo spazio esistenziale e vitale, seppure la sua formazione non gli consente di abbandonare la concezione della storia come principio dialettico, accoglie la possibilità che la logica non spieghi ogni aspetto dell’umano. Tale problematicità esistenziale è espressa dalla nozione poetica di «regresso», inteso da Pasolini come immersione nell’altro, nel suo vivere e avvertire il mondo, lasciando inalterate le prerogative dell’autore che è presente “insieme” al personaggio, la parola colta dell’autore affianca il dialetto dei proletari.

Contrasti e dissensi con il partito non compromettono, per sua testarda dichiarazione, l’essere Pasolini un comunista e, tra discontinuità e contraddizioni, l’orizzonte culturale di intellettuale e militante comunista che profila la sua opera è fondato sulla critica alla borghesia e sulla demitizzazione di espressioni politiche, culturali e antropologiche di quella classe.

Per mettere in crisi tale unicità d’orizzonte si individuano nel percorso culturale e intellettuale di Pasolini due “fasi” (Marco Gatto, Non con Foucault, ma con Marx. Pasolini critico del potere borghese e capitalista). La prima coincide con la militanza nel PCI, con la lettura e l’adesione alle pagine di Gramsci che ne definiscono l’identità di studioso e scrittore. Mentre la seconda fase è definita dall’intellettuale impegnato, dal polemista e dal cineasta di successo. Tale frattura periodizza due profili, quello del Pasolini legato a un impegno tradizionale, conforme a certi dettami, e quello dell’autore scettico e disilluso che professa opposizione e che protesta. Lettura frutto, probabilmente, di un postmodernismo che affascina per semplificazione. Quindi negli anni Settanta quando americanizzazione dei consumi e omologazione culturale, volute dalla classe egemone, producono una mutazione antropologica Pasolini sarebbe un intellettuale privo di classe di riferimento e deprivato di pensiero materialista: la sua lotta non sarebbe più politica ma opposizione individualistica al Potere. Un Pasolini sciolto dai legami con la storia che, seppure con continue insofferenze anarchiche per la norma, è privo di categorie universali e chiuso nel recinto dei particolarismi. Una frantumazione dello scrittore umanista che tende all’oblio di quello marxista-gramsciano. Mentre Pasolini continua a leggere il processo storico come conflitto e il Potere come espressione di violenza verticale, espressione di quella Democrazia Cristiana che vorrebbe si procesasse per aver perpetuato, senza discontinuità, l’autoritarismo del regime fascista. Nei primi anni Settanta la posizione di Pasolini in tema di alienazione aderisce ad una filosofia marxista-marcusiana: il Potere coincide con il Capitalismo. Se definisce i giovani rivoltosi attori di un processo conformistico responsabile della dissoluzione del mondo contadino, che ha inglobato la rivoluzione nel sistema e ha ucciso la sacralità della vita è perché ritiene ancora prioritario il reintegro del sacro nel mondo.

Sacralità dominante nella prima produzione poetica, condensata nella figura del Cristo, immagine del martirio del figlio (Pino Corbo, La “figura Christi” nella poesia di Pasolini). Di fronte alla desacralizzazione di Cristo operata dalla Chiesa nel sottrarlo all’universo contadino, depositario di residui arcaici, occorre rimodulare i riti contadini per mantenere un rapporto con il sacro. La tensione teologica del Cristo rivelatore della divinità va ripensata in termini di ispirazione della pratica religiosa quale contatto con la predicazione cristiana. Nella raccolta di poesie L’usignolo della Chiesa cattolica Cristo testimonia una nuova dimensione del dolore avverso al tema del paradiso terrestre dove la sacralità è felicità, dove Ermafrodito vanifica ogni classificazione sessuale e l’omosessualità manifesta libertà gioiosa. Le poesie dell’Usignolo profilano la struttura psichica dell’autore ma anche quella ideologica, sullo sfondo l’immagine della fanciullezza contro l’ipocrisia e la corruzione degli adulti; quando il Cristo giovinetto si compie nel Cristo esposto in croce allora la sua figura coincide con l’esigenza di esporsi nella lotta civile e nel coraggio dello scandalo. La disillusione per la scomparsa della sacralità non narcotizza la necessità di esporsi e di scandalizzare. 

Scandalo non sempre volontà dell’autore, come per le pagine dedicate alla Calabria nel reportage di viaggio La lunga strada di sabbia che certa stampa locale legge parzialmente e decontestualizza, ritenendole diffamatorie riguardo al territorio e ai suoi abitanti.  Pasolini nella risposta su “Paese sera”, dichiara l’amore per la Calabria e la condanna per chi da sempre la governa, da ultima in ordine cronologico la Democrazia Cristiana, con paternalismo e tirannia (Francesca Tuscano, ”Guarda  bene”. Lo sguardo russo di Aleksej Tkačenko-Gastev sul mandato dello scrittore e Pasolini). Come poeta ricorda i tragici eventi di Melissa nel 1949 e la protesta di braccianti calabresi repressa con le armi. Il suo impegno di intellettuale impone uno sguardo sulle vittime della storia: il dovere del poeta è parlare quando il politico tace, precetto majakovskiano praticato a pieno titolo. Il tema del mandato dello scrittore viene ricollocato da Pasolini negli anni Sessanta, nella crisi linguistica e sociale conseguente al dilagare dei modelli consumistici e alla comunicazione di massa, specie quella televisiva. La fine del mandato dello scrittore si lega alla questione linguistica, quando i centri elaboratori e unificatori del linguaggio non sono istituzioni quali le Università ma le aziende. La visione marxista non può che codificare tale fenomeno come politico. La riflessione sulla necessità di una conoscenza scientifica e razionale sulla realtà che produce una lingua porta Pasolini allo studio del Formalismo russo. Il viaggio nella realtà sovietica è del 1957, quale inviato della rivista “Vie nuove”, il reportage di Pasolini descrive Mosca come una immensa città di contadini; nella realtà socio politica post-stalinista appariva possibile conciliare lo slancio per la giustizia sociale con il passato contadino. La consonanza intellettuale e ideologica con la intelligencija sovietica si interromperà drasticamente a seguito delle sue posizioni di marxista non allineato all’interno del PCI. L’opera di Pasolini non sarà più tradotta nell’Unione Sovietica e la stampa di quel paese non pubblicherà persino la notizia della sua morte. I suoi testi torneranno a essere tradotti e studiati nella Russia post-sovietica in un rapporto speculare di quei lettori con le disillusioni sofferte e rielaborate nelle opere di Pasolini.

Le pagine di Pasolini dedicate al viaggio segnalano la necessità di ampliamento d’orizzonte e di percezione mobile, non solo fisica, che consente il viaggio, tra i mezzi di trasporto il treno ritorna più frequentemente con valenze simboliche (Gian Luca Picconi, Il treno della pietà nemica: La Terra di Lavoro). La Terra di Lavoro che confluirà nel volume Le ceneri di Gramsci testimonia la traversata in treno di quel territorio, tra Frosinone e Caserta, denominato geograficamente come nel titolo, in un clima culturale in cui i passeggeri sono avvertiti e definiti morti-in-vita. Tali in riferimento alla connotazione esterna al treno di un territorio di lavoro manuale, di fatica che determina chi osserva e scrive ad abbandonare l’io lirico per integrarvi la visione storica, magari attraverso riferimenti autobiografici quali il viaggio. Il treno, espressione di modernità, svela una contraddizione profonda tra la natura mortuaria dei viaggiatori e la modernità che dovrebbe riscattarli dall’oppressione. Il tema del viaggio, in un rapporto storico-geografico con il testo poetico, nell’introduzione alla Antologia della poesia dialettale riguarda anche la Calabria definita isola come la Sicilia e la Sardegna, la cui poesia di “evasione” testimonia la tensione al ritorno, verso una nobiltà paesana e familiare, dal viaggio compiuto da diplomati e laureati verso un’Italia corrotta, burocratica e cattiva. Questa Calabria, come il treno, è abitata da una temporalità sospesa, esclusa dal mondo metastorico della natura e i suoi abitanti, come i viaggatori sottoproletari, sono morti alla storia, privi di riscatto. Pasolini si contrappone al sottoproletariato con il quale viaggia in treno attraverso la Terra di Lavoro per la sua condizione di letterato, così come da letterato affronterà il viaggio verso la Calabria per recarsi alla manifestazione del Premio Crotone. 

L’area del crotonese, epicentro di lotte contadine e occupazione delle terre nel dopoguerra, esprimeva anche l’unica realtà industriale, sin dagli anni Venti, in un territorio ad economia agricola. Nel 1952 il sindaco di Crotone, Silvio Messinetti, con il supporto di personalità quali Leonida Répaci e Mario Alicata, avvia il progetto, realizzato nel 1956, di un premio letterario per attirare l’attenzione sui problemi del Mezzogiorno d’Italia. (Christian Palmieri, Artisti ed intellettuali italiani al servizio del Mezzogiorno. Il Premio Crotone) In un decennio di attività il Premio Letterario Città di Crotone sarà occasione d’incontro e di confronto per la cultura italiana. L’edizione del 1959 vede come vincitore Pasolini per il romanzo Una vita violenta, occasione di polemiche ideologiche, di censure clericali e di diserzione da parte di rappresentanti delle istituzioni. Nelle motivazioni la Giuria presieduta da Debenedetti ribadiva che nella poetica di Pasolini il dialetto consente l’accesso a coscienze inibite allo stato larvale per “lo sradicamento delle tradizioni dei luoghi nativi, vecchi ma pur sempre civili, e delle bestiali condizioni di vita”.

Il dialetto contamina la prima pubblicazione drammaturgica di Pasolini, la traduzione su commissione nel 1961 del Miles gloriosus di Plauto, che nella sua reinvenzione comica è proposto come Il vantone, con l’utilizzo di un romanesco più spettacolare che mimetico (Stefano Casi, Il teatro di Pasolini dalla comicità alle tragedie umoristiche). L’avanspettacolo è la dimensione comica dichiarata, definito come “sanguignamente plebeo”, affiancata per paradosso dalla raffinata letterarietà dei settenari in rima. La pratica umoristica di Pasolini origina dalla visione, nel 1952, dello spettacolo cabaret Carnet de notes del Teatro dei Gobbi (Bonucci, Caprioli, Valeri). Solo nel 1964 Laura Betti riesce a mettere in scena, inserendolo nel suo recital Potentissima signora, l’atto unico Italie magique di Pasolini che si ispira al cabaret di Brecht e rievoca il Teatro dei Gobbi utilizzando canzoni, balletti, burattini, diversi dispositivi comici per raccontare gli ultimi decenni di storia patria dal fascismo al neocapitalismo. In quegli anni la comicità come strumento efficace di comunicazione definisce la scrittura teatrale di Pasolini. La comicità popolare, seppure cabarettistica, risulta inadeguata a rappresentare la borghesia e nella drammaturgia delle tragedie diviene umorismo borghese, cioè riso che reca inquietudine come inquietante è la borghesia. La funzione difensiva dell’umorismo dal dolore concerne un distacco dalla realtà, lontananza che vanifica l’effetto deformante del riso, e ripropone quella realtà omologante voluta dalla borghesia. La pratica umoristica iniziata nelle tragedie ed estesa agli interventi giornalistici comporta un alto rischio per Pasolini autore e intellettuale. Il largo uso del registro umoristico, come metodo di analisi e critica della borghesia comporta il pericolo di esserne inghiottito, di rientrare nell’ordine borghese. Problema di non facile soluzione, come tanti sottoposti da Pasolini alla sua opera di umanista intellettuale e alla nostra condizione esistenziale.

I saggi del volume Pasolini e la Calabria per i temi trattati, per l’angolazione teorica, per le argomentazioni, per la bibliografia di riferimento esortano il lettore a praticare la critica come costante autodifesa dalle semplificazioni depistanti e dall’omologazione dei campi semantici per scongiurare il naufragio nel mare nero dell’oblio di regime.

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